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giovedì 28 aprile 2011

La cavalcata dei magi (parte seconda)

LA CAVALCATA DEI MAGI (Parte seconda. La prima parte la trovate QUI.)
Tratto da “La lunga notte de L'Insonne”
Di Giuseppe Di Bernardo editore Marco del Bucchia




Sull’argomento, Marisa rimaneva vaga. Stava concludendo la ricerca e non voleva che qualcuno potesse impadronirsi dei suoi studi. Era ambiziosa in modo positivo. Voleva avere successo per lei stessa, certo, ma anche per dare una gioia ai suoi genitori che si sacrificavano per farla studiare cosí lontano da casa.
Passarono pochi giorni e la incrociai per caso davanti alle Giubbe Rosse. Ci salutammo e le offrii un caffè nel locale degli intellettuali fiorentini per antonomasia. La trovai stanca e appassita, anche se mi guardai bene dal confessarglielo. Probabilmente la sua ricerca le occupava le ore lasciatele ibere dall’università impedendole di riposare. Durante il nostro breve incontro non mi parlò della sua ricerca ma del suo burrascoso rapporto con Florian. La accusava della loro situazione, le diceva che invece di stare dietro a quello stupido affresco avrebbe potuto trovarsi un lavoro ben pagato. Ne avrebbero avuto entrambi bisogno Lei avrebbe voluto protestare, dirgli in faccia quello che pensava e magari lasciarlo; ma, come càpita spesso a noi donne, non ci riusciva. Erano gli occhi di Florian a tenerla legata a lui, occhi di un azzurro chiarissimo, quasi ghiaccio, occhi capaci di vedere in fondo all’anima e succhiarne l’energia vitale.
Era la notte di San Valentino, un giorno che, inutile dirvelo, detesto profondamente. La trasmissione di quella sera si era conclusa come tante altre, con Fabio che mi invitava fuori per una birra e qualcos’altro e io che gli rispondevo che per il qualcos’altro non ero ancóra disponibile e chissà se lo sarei mai stata. Stava nevicando ed era un fatto davvero inconsueto per Firenze. Una bella novità, anche se i fiocchi che cadevano dal cielo buio erano piú simili a gocce d’acqua congelata. Avrei voluto fare a pallate con Fabio, ma la neve non sembrava proprio intenzionata ad attaccarsi.
Avevo appena aperto il portone della radio che percepii una presenza accovacciata sui gradini alla mia destra. Infagottata in un piumino che un tempo doveva essere stato color crema, c’era Marisa. Piangeva e sembrava davvero disperata. Non sembrava neppure piú lei: i suoi capelli ribelli erano ormai stati domati e sembravano esausti. Forse era la neve che le era caduta addosso, ma ebbi la netta impressione che le fossero venute improvvisamente delle ciocche bianche. Ma la cosa che mi lasciò letteralmente senza fiato furono gli occhi. Il fuoco, che le si agitava dentro e che mi aveva conquistato al nostro primo incontro, si era spento.
«Me l’ha rubato» mi disse guardandomi come una bambina alla quale è stato strappato il giocattolo piú prezioso.
«La mia ricerca, l’avevo finita e avevo un appuntamento con un prof dell’università. Uno storico, uno famoso. Era entusiasta della mia storia e aveva promesso di aiutarmi a farne un libro. Sarei anche andata in TV, ne sono sicura» mi disse trattenendo le lacrime. Florian aveva lasciato il loro appartamento insieme al portatile che conteneva tutta la ricerca di Marisa. Certamente aveva bisogno di soldi per giocare e quel piccolo computer gli avrebbe garantito un’altra dose.
Capivo il dolore che stava provando Marisa: era stata tradita dall’uomo che amava, un uomo talmente insensibile da non avere scrupoli nel rubarle la cosa piú preziosa che avesse. Noi donne non cambieremo mai: sono sempre i peggiori a farci battere piú forte il cuore. Comprendevo la sua disperazione, ma non mi sembrava una situazione cosí tragica: qualunque cosa ci fosse stata scritta in quel portatile, avrebbe potuto scriverla di nuovo. L’avrei aiutata io, poteva contare su di me; ora doveva solo stare tranquilla e salire in radio per scaldarsi un po’.
La presi per un braccio e tentai di sollevarla. Quando fu quasi in piedi, e uscí dal cono d’ombra dove si era rifugiata, mi resi conto che aveva i capelli davvero bianchi, come se fosse invecchiata di dieci anni in pochi giorni. Il fuoco nei suoi occhi si era spento definitivamente e ora vedevo solo la notte che le si rifletteva dentro per inghiottirla.
«Io… sto perdendo la memoria» mi disse. «È cominciato da quando Florian si è messo a giocare. Non mi ruba solo i soldi, mi ruba l’energia e i pensieri. Ho ancóra un ricordo vago della mia ricerca, ma so che tra poco non ci sarà piú nulla. Per questo sono venuta a cercarti. Ti prego, Desdemona, vuoi essere la mia memoria?» Mi guardò con i suoi occhi vuoti e un brivido mi percorse i fianchi. Cosa le stava succedendo? Forse il troppo lavoro sulla sua ricerca l’aveva fatta andare incontro ad un forte esaurimento? Stress? Depressione? Non riuscivo a capirlo, avrei cercato di dare un nome alla malattia che affliggeva Marisa, ma intanto dovevo portarla via dalla strada gelata.
«D’accordo» le dissi «a patto che mi racconti la tua storia al caldo di Radio Strega».
La macchinetta del caffè emise un flebile pigolio risentito per l’ennesimo liquido caldo e denso che le mungevamo quel giorno. Porsi il bicchierino di plastica a Marisa, la quale per un attimo sembrò non capire neppure cosa fosse. Poi lo annusò e un leggero sorriso le comparve sul vólto. Il profumo è un eccezionale elisir della memoria e anche quella volta aveva fatto il suo dovere. «Bevevo sempre un sacco di caffè quando lavoravo alla mia ricerca» mi disse.
E iniziò a raccontare.
«Bisognava tornare indietro di quasi seicento anni per conoscere il mistero che circondava la Cavalcata dei magi e l’enigmatico paggio al séguito dell’imperatore di Bisanzio. Avrei scoperto una storia insospettabile, fatta di inquietanti attori che si esibivano davanti a una scenografia d’eccezione come la Firenze del ’400.
Oggi come allora, Firenze ha due facce sovrapposte e complementari: da una parte c’è la città visibile, quella del bello, dei luccicanti negozi di moda e delle gallerie d’arte, simbolo del razionalismo umano; l’altra faccia è nera e occulta, come un fiume in piena che improvvisamente rompe gli argini e travolge tutto. Solo in quel momento, durante una alluvione, ci si rende conto del fango che si nasconde sotto la superficie dell’acqua.
Anche nel rinascimento, accanto alla città illuminata dei Medici, ce n’era una nascosta, morbosa e occulta, fatta di alchimisti e negromanti. Insospettabili personaggi dediti a pratiche oscure che sono arrivate fino a noi, regalandoci sette piú o meno sataniche, forse mandanti di crimini efferati, attribuiti ad un maniaco, ma che sono in realtà il risultato di un preciso rito occulto che affonda le sue radici nei secoli passati.
La Firenze dei Medici poteva vantare uno dei massimi esponenti della cultura esoterica dell’epoca, un abate sacrilego e spretato di nome Francesco Prelati. L’uomo, dotto e affascinante, si abbandonava alle pratiche piú abominevoli, spingendosi con disinvoltura fino al sacrificio umano. Nell’estate del 1438, annunciò ai suoi adepti che bisognava raddoppiare le messe nere e i sacrifici sanguinosi per ingraziarsi i demoni infernali. Da quel giorno, complice l’arrivo imminente della peste, Firenze vide una ecatombe di adolescenti. Una vera e propria strage degli innocenti, l’ennesima che la nostra storia avesse visto.
La fama di Prelati, però, è arrivata fino ai giorni nostri grazie al suo sodalizio con un altro criminale sanguinario, considerato da molti il primo vero serial killer che la storia ricordi: Gilles Lavai de Rais, signore bretone, compagno d’armi di Giovanna d’Arco nella Guerra dei Cento Anni e generale degli eserciti francesi. Giovane, ambizioso, ricco e senza scrupoli, fu nominato da re Carlo VII maresciallo di Francia e, ritiratosi dalla vita militare nel suo castello in Bretagna, diede libero sfogo alla passione per il giovane sangue. Pedofilo e sadico, si circondò di maghi e stregoni che lo convinsero che bere sangue di fanciullo gli avrebbe dato ricchezza e immortalità.
Tra il 1433 e il 1440 furono centoquarantanove le sue vittime, tutti bambini e adolescenti, facili prede per uomini ricchi e potenti. Le strade erano affollate da piccoli mendicanti pronti a seguire chiunque per un tozzo di pane. Il male, da sempre, colpisce il piú debole: l’emarginato è sempre la vittima piú gustosa.
Dal 1439 Prelati diventò un uomo di fiducia di Gilles: officiava messe nere, compiva malefici ed evocava, per lui, il demone Barron».
Quello che Marisa mi stava raccontando non era riportato sui libri di storia: lo aveva dedotto leggendo centinaia di racconti e testimonianze dell’epoca e aveva ricostruito uno scenario spaventoso ma credibile. Come siano andate realmente le cose non possiamo saperlo.
L’Insonne, però, racconta storie vere ma anche presunte o possibili. Raccontare storie è la mia missione e da questo impegno non posso sottrarmi. Fabio, il mio regista, ha messo in sottofondo un brano di Ludovico Einaudi: cosí, mentre ascolto le magiche note del suo pianoforte, accendo una sigaretta e in una nuvola di fumo, mi illudo di vedere cosa successe per le strade di Firenze in quella notte di tanti anni fa.
Il 15 febbraio del 1439, accolto dal cancelliere della Repubblica Leonardo Bruni, fece il suo ingresso trionfale a Firenze l’imperatore di Costantinopoli Giovanni VIII il Paleologo. La sua corte si fece largo attraverso una folla festante e curiosa, che ne accompagnò il passaggio attraverso la città. Quella sfilata cosí inusuale lasciò profonde tracce nella fantasia del popolo, influenzandone l’arte, i costumi e la cucina, ma attirando allo stesso tempo la morbosa attenzione di un personaggio dal cuore marcio che, nascosto nella folla, era rimasto affascinato da ben altro che dalle stoffe variopinte sfoggiate dai cavalieri orientali.
Francesco Prelati aveva adocchiato un piccolo paggio che reggeva il mantello dell’imperatore. Un bambino di otto anni, bruno e bellissimo. Forse l’idea gliela aveva suggerita Barron, il suo demone privato, o forse era stato un desiderio di Gilles de Rais in persona, arrivato dalla Francia in gran segreto per partecipare ad un rito occulto, blasfemo e potentissimo, officiato proprio nel luogo della riunificazione della cristianità.
La sfilata era finita e la notte aveva steso il suo freddo manto su Firenze.
Nel Palazzo Peruzzi, la porta si aprí senza far rumore e una donna entrò nel grande salone adibito a dormitorio. I paggi, tutti ragazzini dai cinque ai dodici anni, riposavano uno accanto all’altro, sotto un bellissimo soffitto a cassettoni, mentre dei passi risuonavano svelti nel silenzio della stanza. Uno dei paggi, il piú piccolo, avvertí un soffio d’aria gelida alle spalle e un brivido lo destò con uno scossone.
«Mi è passata la morte vicino» pensò; «è toccato a un altro e non a me» e con questo pensiero rassicurante si addormentò.
Era certamente oltre la mezzanotte quando un altro piccolo paggio fu svegliato da un lieve respiro al suo orecchio.
«Lo vuoi un po’ di pane e miele?» disse una voce. Una giovane ragazza della servitú si era seduta sul suo letto e gli accarezzava i folti capelli neri. Il bambino non capiva una parola di volgare, quella lingua parlata dal popolo, ma lo sguardo e la voce della ragazza erano cosí dolci che promettevano certamente qualcosa di buono.
Il paggio si alzò e la serva lo prese per mano, guidandolo fuori dalla stanza dove dormivano gli altri fanciulli, tutti ignari del destino a cui erano scampati.
La serva coprí le spalle del bimbo con un telo di iuta e lo accompagnò fuori dove lo attendeva un carretto trainato da un grosso cavallo nero. La ragazza prese dei soldi dal cocchiere e allungò un fagotto al bambino che ci trovò dentro un tozzo di pane nero farcito col miele. Dal carretto scese un uomo incappucciato che lo prese per un braccio e lo tirò a forza sul carretto. La presa dell’uomo non lasciava dubbi sulle sue intenzioni e il bimbo capí di aver commesso un errore a seguire quella bella serva dalla voce rassicurante.
La ragazza, guardando il cocchio che si allontanava, contò i fiorini che le erano stati dati in cambio di quel ragazzino venuto dall’oriente. Avrebbe raccontato di averlo visto fuggire nella notte in direzione di Palazzo Vecchio. Il giorno dopo, i resti del suo corpo sarebbero stati trovati nelle gabbie dei leoni custoditi nel retro dell’edificio. Un incidente, un tragico incidente che di certo non avrebbe turbato lo svolgersi del Concilio.
Il carretto superò indisturbato Porta Santa Maria, lasciandosi alle spalle le mura della città e inoltrandosi nel fitto bosco che circondava Firenze. Dieci minuti dopo si era già fermato e l’uomo incappucciato che aveva preso in custodia il bambino, lo strattonò ancóra per farlo scendere.
Nel bosco vide quella che al piccolo paggio sembrò una specie di strana festa intorno al fuoco, dove uomini e donne cantavano canzoni in una lingua sconosciuta. A guardarlo bene, quello strano ritrovo sarebbe sembrato piú una messa che una festa. Una messa, sí, se non fosse stato per una coppia, in mezzo al capannello di gente, che faceva quella cosa che aveva di nascosto visto fare a una cameriera e a uno degli armigeri del castello dove abitava. Non gli sembrò poi tanto strano: lo incuriosiva solo il fatto che lo facessero lí, davanti a tutti, con quegli astanti che sembravano dare il ritmo. Alcuni degli spettatori erano mascherati e gli altri presenti gli si rivolgevano con riverenza.
La cosa che lo spaventava di piú, però, era un grosso fantoccio: sembrava rappresentare un caprone per via delle sue grosse corna. Ne aveva visto uno simile in una rappresentazione teatrale, ma lí nessuno lo baciava sotto la coda come invece facevano le persone a quella strana festa.
C’era anche un uomo vestito da prete che recitava parole senza senso mentre calpestava una croce di legno. Quando si accorse della presenza del paggio, fece un cenno all’incappucciato, che lo aveva in consegna, di accompagnarlo da lui, davanti ad un piccolo altare fatto di pietra grezza. La piccola folla si aprí al passaggio del bambino e gli si richiuse intorno avvolgendolo.
Gli strapparono i vestiti, lo strattonarono e lo profanarono.
E l’orrore entrò dentro di lui e nel suo cuore.
Il sole stava quasi per levarsi quando il piccolo paggio aprí di nuovo gli occhi. Sentiva male in tutto il corpo ed era imbrattato di sangue che non sapeva neppure se fosse suo. I partecipanti alla mostruosa festa erano sdraiati intorno al fuoco che si stava spegnendo. Il vino e la stanchezza li avevano vinti.
Il piccolo uomo, a cui era stata rubata l’innocenza, riuscí a trascinarsi dietro un cespuglio vicino. Strinse gli occhi e il piú forte possibile serrò i pugni. Maledí il cielo per essere ancóra vivo. Quello che gli avevano fatto lo avrebbe portato per sempre con sé. E non sarebbe stato un bagaglio leggero. Pensò di togliersi la vita, ma si pentí súbito. Quelle persone, se di persone si poteva parlare, avevano bestemmiato e calpestato la croce; cosí giurò a se stesso che avrebbe continuato a vivere al solo scopo di difendere la cristianità. Ogni infedele, trafitto dalla sua spada, sarebbe stato un sasso di meno nel suo bagaglio colmo di pietre.
Quello che era stato un paggio innocente riuní tutte le forze che gli erano rimaste, si alzò e si intrufolò nella boscaglia. Appena fu lontano da quella gente si mise a correre piú forte che poteva, con una foga e una determinazione che lo avrebbero accompagnato per il resto della sua gloriosa vita.
Fuggí, lontano da quella città che l’aveva accolto festante e che poi gli aveva mostrato compiaciuta il suo vólto maledetto.
La violenza è un seme oscuro che se sotterrato nella fertile anima di un bambino genera fiori orribili.
«Chi era quel paggio, Marisa?» le chiesi ansiosa di conoscere finalmente la soluzione dell’enigma.
Marisa era sul punto di rispondermi, ma all’improvviso precipitò in uno stato confusionale di cui non comprendevo la natura.
«Quale paggio?» mi rispose senza piú luce negli occhi. La sua memoria se n’era andata, esattamente come il pigmento dei suoi capelli. Ora sembrava una bambina albina affondata nel divano in finta pelle del salottino di Radio Strega.
Mezzora dopo, la guardavo distesa in un lettino dell’ospedale di Careggi. Aspettai il tempo necessario perché si addormentasse, chiesi rassicurazioni al medico di guardia. La diagnosi era di una forte e inconsueta forma di nevrastenia, ma gli accertamenti erano appena iniziati. Uscii dall’ospedale e partí alla ricerca di quel bastardo di Florian. Rubarle la ricerca a cui teneva tanto l’aveva talmente sconvolta da farle perdere senno, memoria e chissà cos’altro.
Lo avrei stanato, mi sarei fatta dire a chi aveva venduto il portatile di Marisa e avrei recuperato almeno la ricerca. Non prima, però, di aver fatto assaggiare a Florian la punta in metallo dei miei nuovi stivaletti.
Sapevo dove abitavano, me lo aveva raccontato lei, e avevo capíto quale fosse il bar che si era trasformato in bisca clandestina. Il locale era buio e polveroso e io lí dentro non ci avrei neppure comprato le sigarette dopo un mese di sciopero dei tabaccai. Il mattino dopo entrai spedita e mi diressi verso il retro del locale. Il barista mi gridò che non si poteva usare il bagno senza consumare; allora mi fermai, tornai indietro e posai un euro sul bancone.
«Fammi un caffè» gli dissi, «ma poi bevilo tu, che io sono già abbastanza nervosa».
Appena messo piede nel retro del pessimo locale, adocchiai un ragazzotto curvo, come in trance, abbracciato alla macchinetta che aveva sostituito nel suo cuore la piccola Marisa. Non era un gran che, pensai. Da Marisa mi aspettavo gusti migliori, anche se non posso pretendere che a tutte le donne piacciano gli uomini che amo io: belli, tormentati e maledetti.
Qual era la cosa che avrebbe fatto piú male a quella specie di invertebrato attaccato ad un videopoker? Un calcio nel basso ventre? Un graffio sulla faccia? Una testata sul naso?
Come al solito seppi scegliere la mossa piú dolorosa per la mia vittima.
Neppure mi vide arrivare, cosí mi misi alle sue spalle per osservarlo. Aspettai che il gioco avesse preso una buona piega, poi al momento dell’ultima giocata, mi abbassai e con un secco strattone staccai la spina della corrente elettrica.
Il ragazzo rimase qualche secondo come inebetito a fissare un monitor nero, poi si voltò verso di me e mi guardò a bocca aperta come per chiedermi se sapevo dove fossero finite tutte quelle lucine colorate che gli piacevano tanto.
«Checazzo hai fatto? Proprio ora che stavo per vincere!» disse, come uscendo dalla trance di botto.
«Tu sei solo un perdente, Florian» risposi fissandolo con aria di sfida.
«Chiccazzo è Florian?» mi disse lui, perplesso.
Ok, amici nottambuli. Sono insonne, ma non ho mai detto di essere infallibile.
Mi accorsi improvvisamente che quello non era l’unico videopoker del locale e che sulla parete opposta ce ne erano almeno altri cinque, uno dei quali occupato da un tipo che si era voltato incuriosito verso di noi.
«Sono io Florian» mi disse il ragazzo con aria di sfida, «e tu chi saresti?»
Ecco, decisamente meglio. Brava Marisa, questo mi piaceva di piú. Florian non aveva l’aspetto di chi passa le giornate al videopoker: i suoi occhi erano pieni di vita, anche se di ghiaccio. Ghiaccio bollente.
Mi ripresi dall’infatuazione: ero venuta per cambiargli i connotati, non per baciarlo.
«A chi l’hai venduto?» gli chiesi. «Sei una amica di Marisa?» rispose seccato.
«Sí, e se non mi dici a chi cazzo hai venduto il suo portatile ti spacco la faccia!» sono una dura quando serve.
«Credi che mi faccia paura una donna?» mi si avvicinò fissandomi divertito.
«Forse no, ma non hai idea di quanti amichetti abbia» gli risposi senza abbassare lo sguardo. «Te li sei fatti tutti?» rispose lo stronzo.
«Può darsi che anche per questo abbiano un grosso debito verso di me». Potevamo andare avanti per ore. Sono veramente una maniaca compulsiva dell’ultima parola.
Rassegnato, Florian mi raccontò di aver venduto quel portatile a un uomo che gli si era avvicinato durante l’ennesima partita al videopoker. All’inizio non si era neppure accorto della sua presenza, tanto era stato silenzioso; poi aveva sentito il suo respiro pesante e si era voltato. Era un uomo maturo, dai modi viscidi e irritanti: portava degli occhialini rotondi su un vólto molle e inespressivo. Vestiva completamente di bianco e indossava un borsalino assolutamente fuori dal tempo.
Quell’inquietante individuo gli aveva detto di avere la soluzione per i suoi problemi: diecimila euro in contanti per il vecchio computer di Marisa. Voleva il pacchetto completo, però, il notebook con tutto quello che conteneva.
Florian aveva pensato che fosse un affare. Qualsiasi cosa Marisa avesse scritto su quel portatile lo avrebbe potuto scrivere di nuovo e quei soldi gli servivano. Guardando ancóra quel tipo col borsalino si era reso conto che, anche se avesse rifiutato l’offerta, quell’uomo avrebbe ottenuto ciò che voleva, con le buone o con le cattive.
Gli dissi che aveva fatto una cazzata e che bisognava recuperare quella ricerca perché Marisa l’aveva presa molto male. Gli spiegai quello che era successo e Florian si lasciò cadere su una sedia. Sembrava sinceramente scosso.
«Dove lo posso trovare quel tipo?» gli chiesi. Non lo sapeva. Lo aveva incontrato solo due volte, ma non conosceva neppure il suo nome.
Erano passati un paio di mesi ma mi sembrava di aver solo perso tempo. Provai a chiedere in giro, ma le mie ricerche non portarono a nulla di concreto. Marisa, intanto, sembrava spegnersi ogni giorno di piú mentre i medici brancolavano nel buio.
Mi sorpresi a pensare che la mia piccola amica fosse vittima di una specie di vampiro invisibile che le stava succhiando l’energia vitale. Un parassita psichico, che aveva trovato terreno fertile nella sua disperazione. Una larva che non riuscivo a scovare ma che l’aveva ridotta all’ombra di se stessa.
Uscita dal reparto della clinica dove Marisa era ricoverata, mi fermai in un pub che stava preparando gli aperitivi. Dovevo bere qualcosa capace di tirarmi su. Quel parassita, se c’era realmente, stava succhiando anche un po’ della mia energia.
Sopra il bancone, alle spalle del barista, faceva bella mostra di sé, un televisore al plasma di ultima generazione. L’elettrodomestico piú ambíto della nostra epoca trasmetteva un noiosissimo programma culturale che sembrava fatto apposta per far cambiare canale alla gente. Tenere il pubblico lontano dalla cultura è facile: basta confezionargliela come una medicina amara, e nessuno ci si avvicinerà.
Avevo appena ordinato una vodka al melone, il drink preferito da Marisa, quando una frase del presentatore attirò la mia attenzione. L’uomo faceva riferimento ad un’importante scoperta nascosta in un affresco della Cappella dei magi in Palazzo Medici Riccardi.
La telecamera inquadrò un uomo di mezza età, dall’aspetto viscido, tutto vestito di bianco e che si stava sistemando gli occhialetti tondi. Veniva presentato come un professore dell’università di Firenze, un docente di storia dell’arte. L’uomo iniziò a raccontare una storia che conoscevo molto bene per averla già sentita per bocca di Marisa: la storia dell’affresco, del Concilio e del paggio misterioso.
Era certamente il professore con cui Marisa aveva parlato della sua ricerca, l’unico che conosceva i dettagli e il reale valore di quella storia. Le aveva rubato il risultato della sua lunga indagine e si stava prendendo ogni merito, mentre lei avvizziva per cause misteriose in una stanza d’ospedale.
Pagai la vodke e uscii di corsa: ora sapevo a chi presentare il conto della mia rabbia.
Lo trovai il giorno dopo all’università mentre firmava le copie del suo nuovo libro dal titolo “Un’ombra nella Firenze rinascimentale”.
Entrai nell’aula, mi piazzai davanti a lui e sbattendo le mani sulla cattedra, gli dissi: «Lei non è né un professore, tanto meno uno scrittore. Lei è solo uno sporco ladro».


La terza parte sarà online tra pochi giorni.

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